La seconda e ultima follia cinematografica degli Squallor, il gruppo che evita l’eleganza come la peste bubbonica
Un film senza mezze misure: o lo adori o lo detesti
Onestamente, se si esce dalla visione di Uccelli d’Italia lamentandosi per la volgarità di grana grossa che il film trasuda dal primo all’ultimo secondo, non bisogna farne una colpa agli Squallor. Loro, prima di questo film, hanno già sbandierato ai quattro venti di che pasta sono fatti, con una lunga trafila di dischi poco sfumati fin dal titolo (da Vacca a Scoraggiando, per citare i più gentili). La filosofia che innerva questo loro secondo e ultimo lavoro cinematografico (dopo Arrapaho, diretto dallo stesso Ciro Ippolito) ci accoglie lampante fin dalla frase di lancio: “Da un grande paese… grandi uccelli”. Insomma siamo nei territori dell’estremismo verbale e situazionista, dove il tocco d’eleganza è bandito come la peste bubbonica. Gli Squallor non concedono vie di mezze: c’è chi li trova grandissimi, chi li reputa una schifo. E non c’è neanche un’ardua sentenza da consegnare ai posteri. Le cose staranno sempre così.
La fantasia di uno scrittore in presa a blocco creativo sforna situazioni frammentarie e demenziali, ispirate alle canzoni degli Squallor. Finti spot pubblicitari e parodie televisive infiorettano il pastrocchio.