Il sesso di Salon Kitty è un inestricabile coacervo di attrazione e repulsione e anche una gigantesca metafora del potere. L’erotismo del film vive una sorta di doppia personalità: da un lato ci sprofonda in un antro oscuro di abiezioni e psicopatologie; dall’altro ci solleva su terreni imprevedibili di sensualità e struggimento. La conclusione però è di una semplicità tanto nera quanto cristallina: il potere è mostruoso. Concetto che Tinto Brass ribadirà con uguale tenacia nel successivo Caligola. Oltre a incoraggiare ovvi rimandi col Luchino Visconti della Caduta degli dei (e non solo per la presenza di Helmut Berger e Ingrid Thulin), Salon Kitty nutre il proprio immaginario lussuoso di schegge di espressionismo, folate di decadentismo e colpi d’ala fantasmatici di Freud e Nietzsche. Tinto Brass sarà pure un poeta del cinema erotico: ma a patto che non consideriamo la poesia un passatempo lezioso. Seconda apparizione cinematografica di uno dei simboli della liberazione sessuale dei primi anni settanta, Teresa Ann Savoy.
Berlino, 1939. Il prestigioso bordello di Kitty, frequentato esclusivamente da alti ufficiali dell’esercito, è in realtà un centro di spionaggio, costruito ad arte per incastrare chiunque si lasci sfuggire affermazioni critiche nei confronti del nazismo. Finisce nella rete l’ufficiale amato dalla prostituta Margherita. Lei si vendica accusando di tradimento il tenente delle SS Wallenberg, l’uomo che tiene i fili dell’intera macchinazione.