Al suo debutto dietro la macchina da presa, Elio Petri già evidenzia quella corposa destrezza che lo accompagnerà nel corso di una carriera tra le più dense e stimolanti del grande cinema d’autore italiano. Nella figura del suo protagonista, un arrampicatore impregnato di meschineria, si coagula un senso di squallore all’ombra dell’incipiente boom economico, che si appresta a fare piazza pulita degli ideali collettivi che avevano sorretto l’Italia del dopoguerra. Merito del regista aver vinto la sfida di affidare quel ruolo a Marcello Mastroianni, facendo vibrare, dietro al suo volto che ispira fiducia istintiva, un ribollire segreto di mediocrità. A prima vista un giallo, con tanto di cadavere e commissario (l’ottimo Salvo Randone, una sorta di attore feticcio di Petri): ma un giallo che sposta costantemente l’attenzione al di là della risoluzione di un crimine, e va alla ricerca di colpe più sottili.
Un antiquario è condotto a un posto di polizia per essere interrogato. Nessuno però gli spiega la ragione del fermo e l’uomo cerca di immaginare quale può essere la sua colpa. Dai suoi ricordi scaturisce una sorta di esame di coscienza che comunque non lo porta vicino alla verità, che è ben più grave. È infatti sospettato di aver ucciso una donna. Il vero colpevole non è lui, ma chi può dirsi davvero innocente?