Dopo lo strepitoso esito artistico e commerciale della Ciociara, De Sica e Zavattini si prendono il rischio di adattare un dramma esistenzialista di Jean-Paul Sartre, tornando sui temi della guerra e del nazismo. Adottano una prospettiva che si allontana decisamente sia dal neorealismo sia dal cinema popolare, scegliendo di scavare nel torbido delle psicologie. Il cast, di gran prestigio, annovera tre premi oscar: Sophia Loren, Maximilian Schell, Fredric March. De Sica lo considera un mezzo passo falso, soprattutto perché ebbe meno successo di quanto sperato. Ma si tratta di uno di quegli apparenti fallimenti che, nel tempo, assumono spessore imprevisto e sorprendente. Sophia Loren, allontanata dai suoi ruoli tipici di napoletana verace, alle prese con un personaggio più cupo e complessato, rivela sfumature inedite. E il film ha una tensione lacerante e una conflittualità interiore che lo rendono un momento unico nella carriera di De Sica e Zavattini. Un tassello importante per comprendere appieno la ricchezza della loro personalità artistica.
Franz, ex ufficiale nazista, figlio di un grosso industriale, vive rinchiuso in una casa di famiglia nel quartiere di Altona per sfuggire alla giustizia. Crede che la Germania sia ancora un paese invaso dagli stranieri e ridotto in macerie. Conosce Johanna, moglie del fratello, attrice impegnata nella messa in scena di un’opera antinazista di Brecht: la donna gli apre gli occhi sulle reali condizioni del paese. L’uomo fugge dal proprio nascondiglio, viene arrestato, poi rilasciato grazie alla stessa Johanna. Finirà la sua vita precipitando dall’impalcatura di un cantiere assieme al padre.