Assieme a Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, Paolo Cavara aveva sconquassato cinque anni prima il pubblico internazionale con Mondo cane. Un film che faceva del documentario un esercizio di crudeltà e che straziava i limiti, tra ricostruzione e documentazione. Dopo I malamondo, un lavoro sugli stili di vita della gioventù europea che insisteva nel percorso tracciato dai mondo-movies, Cavara, con L’occhio selvaggio, passa al cinema di finzione. Ma siamo sicuri? A ben vedere, forse, questo film è un’opera di documentazione molto più esatta e lucida rispetto ai suoi precedenti lavori. Documenta una piena presa di coscienza, quasi una confessione: è infatti una riflessione, per molti versi sconcertante, sulla falsificazione, sull’uso strumentale della realtà, sacrificata sull’altare delle esigenze dello spettacolo. Una sorta di saggio sul cinema come fabbrica di emozioni, sensazioni e brividi in vendita. L’occhio selvaggio è un film tormentato, attualissimo, unico nel suo genere.
Paolo, un reporter italiano in giro per il mondo alla ricerca di immagini sempre sensazionali, non esita di fronte ad alcun pericolo e ad alcuna bassezza. Dopo aver creato incidenti, frequentato prostitute e tossicomani, rischiato di venire ucciso dai vietcong, durante un attentato vede la sua fidanzata uccisa sotto una trave. Anche lei sarà un soggetto da filmare.