L’amicizia tra un ragazzo e uno squalo, una favola ecologista che riempie di emozione nello splendido scenario della Polinesia
Tratto dal libro Ti-Koyo e il suo pescecane del martinicano Clément Richer, già portato sullo schermo nel 1962 da Folco Quilici, Manidù è una favola accorata che oggi potremmo definire ecologista. È anche una storia d’amicizia tra un ragazzo e un animale dal quale, in condizioni normali, preferiremmo stare alla larga: la bestiola, infatti, è uno squalo tigre, specie che al cinema è, di regola, una macchina di morte che non guarda in faccia nessuno. Ma è successo con la serie di Free Willy, che ha conquistato il mondo narrando di un’amicizia tra un bambino e un’orca, animale al quale quasi in automatico viene affibbiato l’aggettivo qualificativo “assassina”. Manidù, ambientato nell’incantevole scenario polinesiano di Bora Bora, utilizzando squali in carne e ossa, e avvalendosi di bellissime riprese subacquee, è un film che riconcilia con la natura e riempie di emozione.
In un’isola polinesiana, il giovane Ti-Koyo riceve in dono dal suo mentore Manidù uno squaletto tigre, rimasto orfano dopo l’uccisione della madre. Alla morte di Manidù, il giovane è convinto che lo spirito dell’uomo si sia trasferito nello squalo. Il ragazzo e l’animale, che ha ora preso il nome di Manidù, sviluppano un rapporto di amicizia. Lo squalo è inoltre messo a difesa delle sacre perle nere nascoste nella laguna. Attaccherà soltanto chi ardirà arrecare pericolo a Tikoyo o sottrarre le intoccabili perle.